L’affermazione, reiterata più volte dal Presidente del Brasile Bolsonaro, che l’Amazzonia che brucia è un problema interno del Brasile non sta assolutamente in piedi, secondo tutti gli esperti e gli addetti ai lavori: basti pensare che stiamo parlando della più grande foresta pluviale del pianeta (estesa otto volte l’Italia) che produce circa il 20% dell’ossigeno presente sulla Terra e assorbe ogni anno 2 miliardi di tonnellate di anidride carbonica: in pratica, un nostro respiro ogni cinque è dovuto all’azione di questo che è il vero e proprio polmone verde del pianeta.
Gli incendi che stanno divorando la foresta amazzonica costituiscono in realtà un problema globale, che coinvolge tutti i Paesi del mondo, mettendone a rischio gli equilibri climatici; secondo quanto riporta la BBC, rispetto al 2018 quest’anno i roghi sono aumentati dell’85% in tutto il Brasile: in totale, nel Paese sudamericano ce ne sono stati oltre 72mila, di cui circa la metà hanno interessato la foresta pluviale.
L’Amazon Environmental Research Institute (l’Istituto di ricerca ambientale dell’Amazzonia) ha dichiarato senza mezzi termini che l’aumento degli incendi è riconducibile all’azione umana: di contro, le sanzioni erogate dal Brazilian Institute of Environment and Renewable Natural Resources (l’Ente di tutela ambientale brasiliano) sono invece diminuite, risultando 2535 da gennaio a oggi, contro le 4138 comminate nello stesso periodo l’anno precedente
Secondo l’ISPRA, l’Istituto superiore per la protezione ambientale, alla base del fenomeno c’è l’azione scellerata degli agricoltori e delle grandi imprese zootecniche e agro-industriali che usano il metodo ‘taglia e brucia’, cioè gli alberi vengono tagliati tra luglio e agosto, lasciati in campo ad essiccare e poi bruciati: quando ritorna la stagione delle piogge, l’umidità del terreno denudato favorisce la crescita della vegetazione per il bestiame il cui allevamento è responsabile dell’80% della deforestazione in corso nella foresta pluviale amazzonica., considerando che una percentuale importante dell’offerta globale di carne bovina proviene proprio da terreni strappati con questo sistema alla foresta pluviale amazzonica.
In aggiunta all’azione umana, ci sono i cambiamenti climatici: gli incendi sono infatti favoriti e sostenuti dalle condizioni climatiche estreme che si verificano ormai anche in quest’area, una volta immune dalle forti ondate di calore e dalle siccità prolungate: inoltre, questi cambiamenti climatici determinano un aumento della frequenza degli attacchi da parte degli insetti, che rendono le piante ancora più vulnerabili, creando un insieme di condizioni ideali per lo sviluppo di questi immensi e devastanti roghi.
Ad oggi, l’Amazzonia è stata disboscata per oltre il 15% rispetto al suo stato primordiale (prima cioè dell’insediamento dell’uomo sulla Terra): per gli scienziati, se il disboscamento dovesse raggiungere il 25%, non ci saranno abbastanza alberi per mantenere l’equilibrio del ciclo dell’acqua, per cui la regione supererà un punto critico con il rischio concreto di evolvere verso la savana, con conseguenze devastanti sull’intero pianeta.
Secondo l’IPCC, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Intergovernmental Panel on Climate Change), l’attuale ritmo di deforestazione (13 milioni di ettari l’anno, 250 milioni negli ultimi due decenni) e degradazione delle foreste è la principale causa del declino della biodiversitàe dell’accumulo di gas serra in atmosfera
La distruzione delle foreste in altre forme di uso del suolo, il loro incendio, la distruzione di prati e di pascoli, sono alla base delle emissioni di enormi quantità di anidride carbonica: circa 5,5 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente, pari al 14% delle emissioni globali di gas serra.
“A causa di questo degrado e consumo di suolo – ha affermato Lorenzo Ciccarese, capo del Dipartimento che studia i cambiamenti della flora per l’ISPRA – stiamo pericolosamente rinunciando a un’opzione importante per raggiungere il livello net zero emissioni entro il 2050, il target che lo Special Report 1.5 dell’IPCC pubblicato lo scorso anno indica ai decisori politici, se vogliamo contenere il riscaldamento globale a meno di 1.5°C“.
Il Coordinatore Nazionale
Paola Saraceni
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