La recente scarcerazione per fine pena del collaboratore di giustizia Giovanni Brusca ha innescato un acceso dibattito, accompagnato da roventi polemiche, a livello politico e nell’opinione pubblica più in generale.
Il motivo di tanto rumore è il profilo criminale del Brusca, che è colui che azionò l’innesco dell’esplosione che causò la strage di Capaci, è lo stesso che sequestrò per due anni e fece uccidere un minorenne, figlio di un pentito di mafia, e ha confessato di essere stato il mandante di circa 150 delitti.
La normativa sui cc.dd. pentiti (in realtà la legge parla, molto più opportunamente, di collaboratori di giustizia) nacque con la legge n. 15 del 1980, che concedeva benefici premiali ai terroristi che facevano dichiarazioni rilevanti ai fini delle indagini.
Successivamente, su intuizione di Giovanni Falcone, la normativa trovò applicazione anche nei confronti dei mafiosi, con il D. L. 8/1991 (convertito, con modifiche, dalla L. 82/1991), integrato con la L. 45/2001, che tentò di ovviare al problema delle dichiarazioni rese dai collaboratori “a rate”, secondo la loro convenienza, e di abolire l’impunità totale, prevedendo, comunque un congruo periodo di detenzione per il collaboratore condannato.
E’ indubbio che la normativa in esame abbia permesso allo Stato di assestare durissimi colpi alle organizzazioni mafiose, a partire dal primo maxi processo a Cosa Nostra del 1986, messo in piedi dal pool di magistrati coordinati da Antonino Caponnetto, e di cui facevano parte, tra gli altri, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino; in particolare, le dichiarazioni di Brusca consentirono di smantellare l’ala stragista dei corleonesi, con i suoi arsenali di tipo militare, come recentemente confermato dal magistrato Alfonso Sabella che, gestì la collaborazione del boss di S. Giuseppe Jato.
Oggi, dopo 25 anni trascorsi da Brusca al regime del carcere duro previsto dall’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario, la sua scarcerazione getta pesanti ombre sulla legge sui collaboratori; non certo sulla sua efficacia nel contrastare la mafia, ampiamente dimostrata dalla storia, ma sulla opportunità che uno dei peggiori criminali della storia giudiziaria italiana, riacquisti la libertà, sia pure in ossequio ad una norma vigente; norma che permetterà in futuro altre scarcerazioni “eccellenti”, mettendo a rischio la sicurezza dei cittadini e, soprattutto, incrinando in modo devastante l’immagine della giustizia nel nostro Paese, considerato che la normativa prevede per il collaboratore anche uno stipendio, una casa, assegni per eventuali familiari conviventi, incentivi per intraprendere un’attività, e perfino una liquidazione.
Sono molte le perplessità legate a questa vicenda che ci fanno chiedere di rivedere l’attuale normativa sui collaboratori di giustizia, perché se è vero che il loro apporto è stato determinante nell’indebolire le mafie (non solo Cosa Nostra), è altrettanto vero che i tempi sono cambiati, e la stessa mafia assume oggi contorni diversi, adotta strategie più fini, meno sanguinarie ed eclatanti, ma pur sempre efficaci nel garantirsi illecitamente enormi proventi e nell’assicurarsi decisive posizioni di potere, più o meno occulte.
Crediamo che uno dei mezzi per contrastare le mafie oggi, sia quello di potenziare effettivamente la macchina statale, attraverso l’impiego di donne e uomini integerrimi e fedeli servitori dello Stato, eliminando le esternalizzazioni, gli appalti e i subappalti, riducendo all’essenziale tutti i passaggi e le strettoie della burocrazia, ove il malaffare e la corruzione trovano il loro humus ideale per crescere e prosperare, e dove quindi la criminalità organizzata tenta di fare breccia.
E’ necessaria una autentica rivoluzione all’interno della macchina pubblica, a partire da una formazione che rilanci in modo autentico ideali quali il senso dello Stato e di appartenenza alla sua comunità, il senso del dovere e dell’interesse pubblico, che deve prevalere sempre su quello privato, mentre dal canto suo lo Stato deve garantire il futuro di questi lavoratori, abolendo ogni forma di precariato nel rapporto di lavoro che instaura con gli stessi.
Perché, se è vero che per sgominare le potenti organizzazioni mafiose sono serviti i collaboratori di giustizia, è vero anche che un profondo rinnovamento della cultura del senso civico degli Italiani, unito ad un apparato pubblico più efficiente e trasparente, possono contribuire altrettanto a combattere la grande criminalità, e creare un nuovo scenario ove di collaboratori di giustizia ne serviranno assai meno, magari nessuno!
Il Coordinatore Nazionale
Paola Saraceni
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