Una sentenza del TAR Toscana, la numero 303/2024, delinea le fattispecie in cui si verifica la condotta di mobbing in regime di diritto pubblico e contribuisce a fare luce su questo delicato argomento.

La parola mobbing (dal verbo inglese “to mob”, che significa accerchiare, assalire) trova origine negli studi intrapresi negli anni Ottanta dallo psicologo svedese Leymann (a sua volta debitore delle ricerche di etologia del premio Nobel Lorenz) e portati in Italia negli anni Novanta dallo psicologo tedesco Ege: ad essi si deve infatti la prima definizione biomedica del mobbing come una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente e in costante progresso (secondo un andamento a fasi successive, puntualmente enumerate e descritte), in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni a contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in una posizione gerarchica superiore, inferiore o di parità, con lo scopo e/o l’effetto di provocare alla vittima danni di vario tipo e gravità.

Ancora grazie a tali studi il fenomeno è stato consegnato all’attenzione dei giuristi ed in particolare dei giudici che, a partire dalla sentenza Trib. Torino, 16.11.1999 (ove è stato riconosciuto il danno psicologico subito da una lavoratrice costretta dal capo reparto a operare in ambiente ristretto senza possibilità di contatti umani e dal medesimo sistematicamente trattata in modo arrogante e incivile), ne hanno via via costruito, in mancanza di una definizione legislativa, la nozione giuridicamente rilevante, appunto attingendo dalle scienze mediche e sociali.

E, secondo la giurisprudenza ordinaria, di merito e di legittimità, il mobbing si sostanzia in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati – secondo l’orientamento prevalente – da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo (v., ad es.: Cass., 27.1.2017, n. 2142)

La sentenza Odierna conferma la tendenza e sottolinea l’importanza di individuare e dimostrare la presenza di un intento persecutorio dietro i comportamenti vessatori, affinché si possa configurare il mobbing nel contesto lavorativo pubblico (personale con rapporto di lavoro ai sensi dell’Art. 3 del D.Lgs.165/2001 e s.m.i.).

Si rammenta che per mobbing si intende una serie di comportamenti ostili e sistematici da parte del datore di lavoro o del superiore gerarchico, che mirano a perseguitare o vessare il dipendente, causandogli danni sia fisici che psicologici.

Ecco quando si verifica il mobbing in regime di diritto pubblico

Secondo il Tribunale Amministrativo Regionale della Toscana (Tar Toscana), il concetto di mobbing nel contesto del pubblico impiego richiede una serie di caratteristiche specifiche affinché possa essere riconosciuto come tale. In particolare, il Tar Toscana sottolinea che i comportamenti riconducibili al mobbing devono presentare diverse peculiarità:

  1. Complessità: I comportamenti vessatori devono essere complessi, ovvero non si tratta semplicemente di singoli episodi isolati, ma di una serie di azioni interconnesse e ripetute nel tempo. Questa complessità può manifestarsi attraverso una varietà di mezzi e modalità utilizzati per vessare il dipendente.
  2. Protrazione nel tempo: Il mobbing non si configura come un episodio isolato, bensì come un fenomeno protratto nel tempo. È caratterizzato da una continuità e una ripetitività nel tempo dei comportamenti vessatori, che possono protrarsi per settimane, mesi o addirittura anni.
  3. Chiara intenzione persecutoria: È essenziale che i comportamenti vessatori siano manifestati con una chiara intenzione persecutoria da parte del datore di lavoro o del superiore gerarchico. Ciò implica che tali comportamenti non siano accidentali o casuali, ma siano volutamente diretti a danneggiare o emarginare il dipendente.
  4. Differenza rispetto al normale svolgimento del lavoro: I comportamenti vessatori devono essere significativamente diversi dal normale svolgimento del rapporto di lavoro. Questo significa che non si tratta di azioni legittime o connesse con le normali dinamiche lavorative, ma di comportamenti che esorbitano dagli standard accettabili e mirano a danneggiare la persona o la reputazione del dipendente.
  5. Mirare alla degradazione ed emarginazione: Uno degli obiettivi principali del mobbing è la degradazione e l’emarginazione del dipendente all’interno dell’ambiente lavorativo. Questo può manifestarsi attraverso l’isolamento sociale, la delegittimazione delle capacità professionali o altri mezzi volti a minare la fiducia e l’autostima del dipendente.

La prova del mobbing

La sentenza sottolinea che la prova del mobbing richiede la presenza di diversi elementi:

  • la presenza di una serie di comportamenti persecutori o vessatori, sia leciti che illeciti, ripetuti nel tempo e diretti contro il dipendente.
  • il verificarsi di danni alla salute fisica o psicologica del dipendente.
  • un collegamento causale tra i comportamenti del datore di lavoro o del superiore gerarchico e i danni subiti dal dipendente.
  • la dimostrazione dell’intento persecutorio dietro tali comportamenti.

È importante notare che singoli atti illegittimi o gestioni del rapporto di lavoro non sono di per sé indicativi di mobbing, ma devono essere parte di un disegno più ampio e mirato a danneggiare il dipendente.

Dal punto di vista processuale, il dipendente deve allegare e dimostrare gli elementi essenziali del mobbing, non limitandosi a lamentarsi genericamente, ma fornendo prove concrete al giudice per stabilire l’esistenza di un disegno vessatorio.

Scarica la Sentenza del Tar Toscana

Ufficio Stampa FSI-USAE

Di Admin

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