Lo scorso 17 gennaio è stata pubblicata in G.U. la sentenza n. 4/2024 della Corte costituzionale che ha dichiarato incostituzionale l’art. 51 comma 3 della legge 23 dicembre 2000 (legge Finanziaria 2021).
Con la sentenza è stata certificata l’illegittimità costituzionale della norma con la quale il Governo aveva negato la proroga al 31 dicembre 1993 del contratto di lavoro 1988-1990, e del termine utile per il calcolo del requisito dei 5, 10 e 20 anni di servizio che davano luogo al riconoscimento della maggiorazione della RIA, ai sensi dell’articolo 9, commi 4 e 5, del DPR n. 44/90.
La norma in questione fu emanata per fornire una restrittiva interpretazione dell’art. 7 comma 1 del d.l. 19 settembre 1992, n. 384 e risolvere il contenzioso che, all’epoca, vedeva l’amministrazione soccombente ed i ricorrenti del comparto “Ministeri” ottenere la rivalutazione della Retribuzione Individuale di Anzianità (di seguito R.I.A.) ex. art. 9 commi 4 e 5 del d.p.r. 17 gennaio 1990, n. 44 per il triennio 1991-1993, ovvero oltre il termine del 31.12.1990 (che prevedeva: “Le misure delle maggiorazioni di cui al comma 4 sono, con le stesse decorrenze stabilite nel medesimo comma 4, raddoppiate e quadruplicate nei confronti del personale che, nell’arco della vigenza contrattuale, abbia o maturi, rispettivamente, dieci o venti anni di servizio, previo riassorbimento delle precedenti maggiorazioni.”)
La sentenza riconosce quindi la correttezza delle istanze e dei molteplici ricorsi presentati a suo tempo, poi mortificati dalla cosiddetta “interpretazione autentica” venuta dal Parlamento, che riconosceva validi solo i requisiti maturati sino al 31.12.1990.
Da una prima analisi dell’ufficio legale della nostra O.S. emerge che la pronuncia della Consulta non produce effetti nei confronti del personale di altri comparti, al di fuori dei Ministeri (ex dpr 44/90) atteso che i contratti di settore antecedenti al 1993 non avevano previsto rivalutazioni della Retribuzione Individuale di Anzianità oltre il 31.12.1990, a differenza di quanto previsto proprio dai citati commi 4 e 5 dell’art. 9 del d.p.r. 44/1990 per il personale del comparto “Ministeri”. In altri termini, il personale degli altri comparti non avrebbe subito nessun danno dalla norma oggi dichiarata incostituzionale che interveniva unicamente sulla norma che interpretava il contenuto del dpr 44/1990.
Inoltre sono emersi importantissime chiarimenti in merito agli effetti e alle conseguenze della sentenza di incostituzionalità emessa dalla Corte Costituzionale, alla luce di altre pronunce della Corte di Cassazione, come quella a Sez. unite n. 36197/2023, in merito alle decorrenze della prescrizione anche per gli interessati.
In particolare, è emerso come la Corte di Cassazione si sia più volte pronunciata in merito, specificando come la dichiarata illegittimità di una norma non comporti né una declaratoria di inesistenza o di nullità (per cui la norma non esiste/non ha mai prodotto effetti), né l’abrogazione (per cui la norma perderebbe di efficacia a partire dalla data della sentenza), né l’annullamento (per cui la norma sarebbe stata privata dei suoi effetti fin dal principio). La pronuncia di illegittimità determina la disapplicazione della norma illegittima non opera per il passato, ma solo per il futuro, e in particolare in due casi:
1) Nel caso in cui il giudizio sul ricorso proposto dall’interessato sia stato sospeso in attesa di conoscere il pronunciamento della Corte Costituzionale sulla legittimità della norma ;
2) Nel caso in cui l’interessato abbia sistematicamente interrotta la prescrizione, avendo proposto la relativa istanza di interruzione dei termini quinquennali prima della relativa scadenza, e reiterandola periodicamente ad ogni quinquennio.
Per contro, la stessa Corte di Cassazione ribadisce che la sentenza di illegittimità non può in ogni caso produrre alcun effetto sui giudizi già conclusi. Dunque, i ricorsi a suo tempo presentati passati in giudicato, avendo i giudici deciso per una sentenza di rigetto, non possono essere riaperti.
Altro caso è quello di chi non ha mai agito innanzi all’Autorità giudiziaria pur avendo maturato l’anzianità utile alla rivendicazione di che trattasi: come già anticipato, vale il principio per cui, in assenza di interruzione della prescrizione quinquennale, i crediti maturati nel 1993 risultano inesigibili e prescritti già nel 1998. Sul punto, infatti, si è pronunciata la Corte di Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza 28.12.2023 n. 36197, confermando il principio per cui nel pubblico impiego (a differenza del privato…) vige la prescrizione anche in corso di rapporto.
Ufficio Stampa FSI-USAE